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Negli ultimi venti mesi, l’inflazione è stata al centro dell’attenzione per gli impatti negativi nella vita di tutti noi. Infatti, un aumento improvviso dei prezzi erode il nostro potere di acquisto, costringendoci a spendere di più per mantenere il nostro tenore di vita, o obbligandoci a rivedere i nostri consumi per non sforare i nostri budget mensili.
Le banche centrali per combattere questa chimera economica hanno vigorosamente aumentato i tassi di interesse a partire dal 2021 tentando di riportare l’inflazione a livelli fisiologici; così dopo due anni di aumenti continui forse siamo giunti alla fine. Tutto merito di Powell negli Usa? Un recente studio della FED di San Francesco getta luce su come la caduta dell’inflazione sia attribuibile principalmente a fattori esterni piuttosto che all’impatto del rialzo dei tassi di interesse sulla domanda. Quindi, secondo lo studio, sembra evidente che non è tutto merito di Powell.
La prossima riunione di dicembre sarà cruciale per valutare le prospettive future ma i mercati finanziari, al netto di eventuali accadimenti ad oggi non previsti e non prevedibili, escludono ulteriori aumenti dei tassi di interesse da parte delle banche centrali Usa e UE.
L’andamento del livello di inflazione nell’Unione Europea e negli Usa negli ultimi 25 anni è rappresentato nei due grafici seguenti.
E’ evidente come, rispetto ai picchi, l’inflazione stia scendendo verso l’obiettivo target del 2%, anche se negli USA, come si vede nel grafico, c’è stato un “colpo di coda” nell’ultimo periodo.
Il quantitative tightening (la misura che le banche centrali utilizzano per ridurre la quantità di denaro in circolazione) è giunto al termine. Il Fed Funds rate, per la prima volta da marzo 2022, si allinea al Terminal Rate, suggerendo che al momento i tassi non subiranno ulteriori aumenti negli Stati Uniti.
Nel comunicato ufficiale, si osserva una rapida diagnosi dell’economia statunitense, riconoscendo la robusta crescita nel terzo trimestre. La novità più intrigante riguarda l’andamento dei rendimenti, che aveva spinto Jerome Powell a considerare l’ultimo rialzo dell’anno come forse superfluo. Si parla ora di «condizioni finanziarie e creditizie» che influenzeranno l’attività economica, l’occupazione e l’inflazione, ampliando il focus oltre le sole «condizioni creditizie».
Jerome Powell, presidente della Fed, ha evidenziato che cambiamenti persistenti nelle condizioni finanziarie possono influenzare la politica monetaria. La questione sulla neutralità dell’attuale orientamento di politica monetaria rimane aperta, e nuove strette non sono escluse. Nonostante le parole di Powell il mantenimento all’attuale livello dei tassi è dato all’80% delle probabilità, così come solo del 30% la probabilità che possa avvenire un aumento dei tassi da parte della FED nella prima riunione di gennaio 2024.
Quanto alla Banca Centrale Europea, la presidente Lagarde ha fornito una visione vaga sulla durata della recente decisione di politica monetaria. La BCE ha portato i tassi di interesse al 4,50%, puntando a portare l’inflazione al 2%. Lagarde sottolinea che, se sostenuti abbastanza a lungo, i tassi contribuiranno significativamente a raggiungere questo obiettivo. La situazione economica nell’area dell’Euro, però, a differenza di quella negli USA, è molto debole e rimarrà debole per tutto il resto dell’anno. L’Europa affronta ancora le sfide di una recessione, evidenziate dai dati sulle vendite al dettaglio. Tuttavia, segnali positivi emergono dagli indicatori anticipatori, indicando una possibile ripresa nei prossimi trimestri.
Nei due grafici seguenti si evidenzia l’andamento dei tassi di interesse della BCE e della FED negli ultimi 25 anni. Da notare che erano oltre 20 anni che non si arrivava a tassi così elevati.
I due grafici evidenziano i comportamenti delle banche centrali per affrontare il livello eccessivo di inflazione che inaspettatamente si era venuto a determinare a partire dal periodo post Covid.
Ma come impattano alla fine queste decisioni delle banche centrali nella nostra vita di tutti i giorni?
In particolare, nell’Unione Europea c’è stato un boom di richieste di rinegoziazioni dei mutui nel tentativo di mettersi al riparo dai rincari delle rate di quelli a tasso variabile. Segnali tangibili degli effetti della stretta sui tassi, poi, arrivano anche dalla forte contrazione dei prestiti alle imprese.
Oltre agli impatti sulla vita di tutti i giorni, l’aumento dei tassi ha avuto come conseguenza sui mercati finanziari una discesa marcata delle obbligazioni che ad oggi risultano essere particolarmente interessanti. Ne sono la riprova i vari sold-out fatti registrare da svariate emissioni di obbligazioni (pensiamo al bond di Eni di questa estate). In situazioni come queste la tentazione potrebbe essere quella di fare scorpacciata di BTP, ma come ogni abbuffata le conseguenze sul nostro portafoglio potrebbero non essere ideali a causa della scarsa diversificazione, che ha come conseguenza diretta la perdita di occasioni di acquisto per settori più interessanti o che ben presto potrebbero diventarlo.
Facendo seguito a tale considerazione si potrebbe pensare di aggiungere al proprio portafoglio un po’ di obbligazionario o investimenti diversi, in entrambi i casi di breve periodo, mentre l’azionario americano o globale rimane sempre e comunque la scelta più performante per gli obiettivi di lungo termine, ricordando sempre di mantenere un portafoglio ben bilanciato ed in linea con i propri obiettivi.
In conclusione, se da un lato abbiamo assistito ad una delle risalite più rilevanti dell’inflazione nei principali paesi sviluppati, dall’altra la “medicina” più efficace per riportarla ai livelli desiderati, quella della politica monetaria restrittiva da parte delle banche centrali, ha potuto far tornare sia il mondo obbligazionario nuovamente appetibile, cosa che non accadeva da molti anni, sia il sorriso ai BOT/BTP people.